A metà mattinata arriva la mia amica Roberta, avevamo deciso ieri di vederci un film. La mattinata, e ora non è meglio, è stata uggiosa, piovigginosa e grigia da morire; sicuramente non abbiamo scelto un film che la colorosse o rallegrasse, ma la scelta ormai era stata fatta da qualche giorno.
Il film, di Jonathan Levine, è tratto dalla vera storia dello sceneggiatore, giovane uomo che conduce la vita di tutti i giovani fino al giorno in cui scopre, a causa di un mal di schiena, di avere un cancro. Di quelli agguerriti che lasciano un margine del 50% di sopravvivere.
Si snoda così la vita che, costretto, condurrà da quel giorno, tra ospedale, cure, malattia, terapia psicologica e barcamenandosi nella vita di tutti i giorni: problemi con la fidanzata, il suo migliore amico, una famiglia problematica.
Un film sicuramente drammatico, ma che lascia spazi anche all’allegria e ai sentimenti. Bravissimo Joseph Gordon-Levitt che interpreta Adam, il protagonista, il suo calarsi nel personaggio è molto, molto reale.
Il cast l’ho trovato giusto, a partire dalla bravissima Anjelica Huston, la madre.
Un film che commuove ma senza voler a tutti i costi far piangere, anzi….Lo definirei un film strepitoso.
Ogni volta che vedo un film che presenta queste tematiche vengo catapultata nel periodo della mia malattia (anche se alcuni momenti vissuti sono sempre con te ); alcune situazioni ed emozioni le ho vissute a pelle, e non una volta sola, purtroppo. Nel film si tocca la paura di morire, la rabbia covata (e in questo caso esplosa tardi, ma vi assicuro che ho visto scene veramente drammatiche), l’aiuto che si riceve e quello che invece ti aspetti e non vedrai mai.
Finito di vedere il film Roberta mi ha chiesto come avessi vissuto quel periodo e allora ho ricordato i miei “look” nati per coprire i miei 48 kg: gonne zingaresche, orecchini vistosi, turbanti e folulard annodati con una certa originalità per coprire la mia testa ormai rasata, volontariamente, a zero, ma che non mi dispiaceva neanche un pò; rasata volontariamente, si, perchè non potevo aspettare di “spennacchiarmi” gradatamente, e non volevo una parrucca. Gli ho raccontato delle mie preghiere fatte al mattino nella cappella dell’ospedale, delle notti insonni da cortisone ingerito in dosi da cavallo, della mia dottoressa che era diretta, franca, ma incredibilmente simpatica e capace (al contrario di chi l’ha sostituita e per un pelo non mi ha mandato al Creatore). Gli ho raccontato di come salissi la rampa della scalinata che portava al reparto senza aiuto, mai preso l’ascensore, era la mia scalata, la mia meta stabilita per non arrendermi, salivo come una lumaca, con fatica, ma ho tenuto fino all’ultimo giorno; gli ho raccontatao delle ore passate sulla terrazza dell’ospedale al sole, perchè la luce era una benedizione, delle ore ferme con l’ago infilato che non mi disturbava, l’ho amato in quei momenti, insieme alla kemio erano i miei guierrieri, quelli che accoglievo perchè mi aiutassero nella battaglia. Gli ho raccontato di come avessi disegnato “la stecca”, quella che una volta usavano i militari per il passare dei giorni, come tornavo a casa ne barravo la tacca e tenevo i conti, erano 13 e 13 sono state. Di come, finita la kemio andavo in bagno e le mie urine erano colorate (che tocco di originalità!), rosse: kemio da 5 ore, verde: kemio da 3 ore, arancio: kemio da 1ora e 45 minuti, la terribile. Gli ho raccontato di chi è stato con me e ancora c’è ma anche di coloro (molti, troppi) che se ne sono andati per sempre, coloro con cui ho riso, sorriso, pianto, discusso, consolato. Gli ho raccontato di come ricamassi, cucissi, dipingessi per non far addormentare i polpastrelli, di come diligentemente mi attenessi alla dieta stabilita pur vendo una voglia pazza di dolci, per non potermi rimproverare niente; di come in quelle ore non pensassi a mia figlia che aveva solo nove mesi, perchè allora sarei crollata pensando di esseregli lontana per tante ore e di come abbiamo dovuto comprare una sedia a dondolo per permettermi di cullarla, le mie braccia non la potevano sostenere perchè i miei muscoli si assottigliavano sempre di più con i liquidi che usavano per la cura…Una parte di vita dura, durissima, ma che mi ha insegnato tanto, mi ha dato tanto, mi ha fatto conoscere tanto e sopratutto mi ricorda ogni giorno che la vita è un dono troppo grande e la si deve difendere fino all’estremo. Con amore, con pazienza, con coraggio, con fede.